Articolo del mese

I migliori articoli pubblicati da autori italiani
sulle maggiori riviste scientifiche italiane e straniere


Articoli Scientifici 2020

Dicembre 2020

High γ-aminobutyric acid content within the medial prefrontal cortex is a functional signature of somatic symptoms disorder in patients with Parkinson's disease

Autori:  Stefano Delli Pizzi, R. Franciotti, A. Ferretti, R.A.E. Edden, H.J. Zöllner, R. Esposito, G. Bubbico, C. Aiello, F. Calvanese, S.L. Sensi, A. Tartaro, M. Onofrj, L. Bonanni
Corresponding author: Dr.ssa L. Bonanni (l.bonanni@unich.it) - Department of Neuroscience, Imaging and Clinical Sciences, University G. d’Annunzio of Chieti-Pescara

Pubblicato su: Mov Disord. 2020 Dec;35(12):2184-2192. doi: 10.1002/mds.28221

Stefano Delli Pizzi

Stefano Delli Pizzi

Department of Neuroscience, Imaging and Clinical Sciences, University G. d’Annunzio of Chieti-Pescara

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Movement Disorders
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La malattia di Parkinson (MP) è una condizione neurodegenerativa progressiva caratterizzata, oltre che da sintomi e segni motori, da un elevata prevalenza  di disturbi neuropsichiatrici, tra cui il cosiddetto disturbo somatoforme, anche definito disturbo da sintomi somatici (Somatic Symptom Disorder - SSD). Ad oggi, la fisiopatologia degli SSD nella MP non è del tutto nota. Evidenze di neuroimmagine suggeriscono, tra i possibili substrati neuro-funzionali alla base degli SSD, l'ipoattività della corteccia prefrontale mediale e l'iperattività di varie strutture sottocorticali connesse alle aree frontali, ovvero amigdala, striato e talamo. Si ritiene infatti che la corteccia prefrontale mediale svolga un ruolo chiave nel regolare l'attività delle suddette strutture corticali e di conseguenza provvedere all'integrazione delle percezioni corporee e delle informazioni cognitivo-affettive. L'attività della corteccia prefrontale mediale è modulata localmente da interneuroni inibitori gabaergici e glutammatergici. In particolare, studi di neuroimaging suggeriscono che un alterata attività della corteccia prefrontale mediale si associ ad un ridotto controllo delle aree limbiche con conseguente comparsa di tratti ansiosi e altri disturbi neuropsichiatrici. Nel lavoro condotto dal Dott. Delli Pizzi sono state specificatamente indagate possibili relazioni tra il contenuto di neurotrasmettitori inibitori (GABA) ed eccitatori (glutammato e glutammina) nella corteccia prefrontale mediale e l’eventuale presenza di SSD in pazienti con MP. Lo studio è stato condotto su 23 pazienti con MP e SSD, 19 pazienti con MP senza SSD, 19 soggetti sani di controllo e 14 soggetti con SSD ma senza altri disturbi psichiatrici o neurologici di rilievo. Il livello del GABA e dei neurotrasmettitori eccitatori sono stati studiati, a riposo, mediante la spettroscopia di risonanza magnetica nucleare. I risultati dello studio mostrano un aumento del GABA nella corteccia prefrontale mediale nei pazienti con MP e SSD rispetto ai pazienti con MP senza SSD e ai controlli sani. Al contrario non sono state rilevate significative differenze nelle concentrazioni di glutammato o glutammina tra gruppi. I risultati dello studio evidenziano pertanto un ruolo cruciale dell'elevato contenuto di GABA nella corteccia prefrontale mediale nel contesto della fisiopatologia degli SSD nei pazienti con MP. Questa alterazione neurochimica, data la complessa interazione  tra la corteccia prefrontale mediale e le varie strutture sottocorticali con cui è connessa, determinerebbe l’iperattivazione dell'amigdala e dello striato e ad uno squilibrio nell'integrazione delle percezioni corporee e delle informazioni cognitivo-affettive. I risultati del presente lavoro potrebbero avere interessanti sviluppi ed implicazioni terapeutiche.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Novembre 2020

Striatal dopamine deficit and motor impairment in idiopathic normal pressure hydrocephalus

Autori:  Nicoló Gabriele Pozzi, J. Brumberg, M. Todisco, B. Minafra, R. Zangaglia, I. Bossert, G. Trifirò, R. Ceravolo, P. Vitali, I.U Isaias, A. Fasano & C. Pacchetti
First author: Dr. Nicoló Gabriele Pozzi
Corresponding author: Dr. M. Todisco (massimiliano.todisco@mondino.it) - Parkinson's Disease and Movement Disorders Unit, IRCCS Mondino Foundation, Pavia

Pubblicato su: Mov Dis 05 November 2020 https://doi.org/10.1002/mds.28366

Nicoló Gabriele Pozzi

Nicoló Gabriele Pozzi

Parkinson's Disease and Movement Disorders Unit, IRCCS Mondino Foundation, Pavia

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Movement Disorders
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L'idrocefalo normoteso rappresenta un’entità clinica relativamente comune nell’età senile e di difficile diagnosi, spesso per la coesistenza di segni e sintomi neurologici di dubbio inquadramento, ad esempio il parkinsonismo. A questo proposito, non è del tutto chiaro se l'idrocefalo normoteso sia caratterizzato da eventuali deficit dopaminergici centrali. Questi sono stati interpretati in passato come effetto della distorsione strutturale delle fibre nigrostriatali dovuto all’alterata dinamica liquorale o in alternativa a fenomeni neurodegenerativi. Nel lavoro condotto dal Dott. Nicoló Gabriele Pozzi è stato indagato l’eventuale deficit del trasportatore striatale dopaminergico in un campione relativamente ampio di 50 pazienti con idrocefalo normoteso in confronto a 25 pazienti con malattia di Parkinson e 40 controlli sani. Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a studio di imaging molecolare mediante tomografia computerizzata ad emissione di singolo fotone (SPECT). I pazienti con idrocefalo normoteso sono stati inoltre sottoposti a: (i) Risonanza Magnetica Nucleare cerebrale per quantificare l’entità della ventricolomegalia (calcolata mediante indice di Evans) e di eventuali alterazioni della sostanza bianca, (ii) test di somministrazione di levodopa e di sottrazione liquorale e (iii) valutazione longitudinale (fino a 2 anni) per minimizzare il rischio di errata diagnosi. I classici segni dell’idrocefalo, ovvero disordini della deambulazione, alterazioni cognitive e del controllo sfinterico ed il parkinsonismo sono stati accuratamente valutati mediante scale cliniche standardizzate. In oltre il 60% dei pazienti con idrocefalo normoteso è stato documentato un deficit del trasportatore della dopamina a livello striatale, ed è stata osservata una correlazione con la gravità del parkinsonismo ma non con altre alterazioni di neuroimmagine né con altri segni e sintomi neurologici. Il deficit dopaminergico nell’idrocefalo normoteso è apparso simmetrico e più evidente a livello del nucleo caudato. Questi risultati sembrano essere effettivamente caratteristiche distintive dell’idrocefalo normoteso se si considera il coinvolgimento asimmetrico e prevalentemente putaminale tipico della Malattia di Parkinson. In conclusione, lo studio dimostra che l’idrocefalo normoteso può essere frequentemente caratterizzato da un deficit dopaminergico centrale e che tale alterazione può riflettere la gravità del contestuale parkinsonismo. Gli autori sottolineano l’importanza di futuri studi prospettici per meglio delineare il ruolo di un alterata neurotrasmissione dopaminergica centrale nella fisiopatologia dell'idrocefalo normoteso.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Ottobre 2020

Cerebello Thalamo Cortical Network Is Intrinsically Altered In Essential Tremor: Evidence From A Resting State Functional Mri Study

Autori:  Valentina Nicoletti, P. Cecchi, I. Pesaresi, D. Frosini, M. Cosottini & R. Ceravolo
First author: Dr.ssa Valentina Nicoletti
Corresponding author: Dr. R. Ceravolo (roberto.ceravolo@unipi.it) - Department of Clinical and Experimental Medicine, University of Pisa

Pubblicato su: Sci Rep. 2020 Oct 7;10(1):16661. doi: 10.1038/s41598-020-73714-9

Valentina Nicoletti

Valentina Nicoletti

Department of Clinical and Experimental Medicine, University of Pisa

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Scientific Report
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Il tremore essenziale è uno dei disturbi del movimento più comuni negli individui adulti caratterizzato da tremore d’azione con prevalente coinvolgimento degli arti superiori, la cui fisiopatologia è tutt’ora oggetto di un’intensa attività di ricerca. Numerosi studi elettrofisiologici e di neuroimmagine hanno, in passato, dimostrato ampiamente il ruolo della via cerebello-talamo-corticale nella fisiopatologia del tremore. Ad oggi, tuttavia, non è noto dove origini l'attività cerebrale patologica implicata nella genesi del tremore e sono state avanzate ipotesi basate su uno o più oscillatori centrali. Nello studio condotto dalla Dott.ssa Valentina Nicoletti sono stati testati 23 pazienti con tremore essenziale e 23 soggetti sani di controllo. I partecipanti allo studio sono stati sottoposti ad uno studio di Risonanza Magnetica Nucleare cerebrale (3T) con acquisizione di sequenza resting state. La connettività cerebrale funzionale è stata analizzata mediante un approccio basato su seed. Nei pazienti è emersa un’alterata connettività funzionale tra aree motorie primarie (M1) e non primarie (corteccia premotoria ed area supplementare motoria), talamo e cervelletto. Nello studio, è stato inoltre dimostrato un esteso coinvolgimento di aree non motorie nel lobo parietale, ovvero le circonvoluzioni parietali superiore, inferiore, sopramarginale, angolare, il precuneo e il lobulo paracentrale. Lo studio dimostra quindi un’alterata connettività funzionale di un network esteso che include varie aree corticali (motorie e sensoriali) e sottocorticali. I risultati dello studio, in linea con precedenti osservazioni sperimentali nel tremore essenziale, supportano quindi il concetto di un verosimile coinvolgimento dinamico di multipli oscillatori centrali nel contesto della via cerebello-talamo-corticale nella genesi del tremore. Un aspetto interessante riguarda il fatto che le alterazioni descritte in condizioni di riposo. Infine, i risultati del presente lavoro (e di eventuali studi futuri condotti con metodologie simili) potrebbero rivelarsi utili anche nell’interpretazione fisiopatologica anche dei disordini non-motori, sempre più spesso descritti nei pazienti con tremore essenziale i cui meccanismi ad oggi rimangono largamente sconosciuti.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Settembre 2020

Dystonia genes functionally converge in specific neurons and share neurobiology with psychiatric disorders

Autori:  Niccolò E. Mencacci, R. Reynolds, S. Garcia Ruiz, J. Vandrovcova, P. Forabosco, A. Sánchez-Ferrer, V. Volpato, UK Brain Expression Consortium, International Parkinson’s Disease Genomics Consortium , M.E. Weale, K.P. Bhatia, C. Webber, J. Hardy, J.A. Botía, M. Ryten
First author: Dr. Niccolò E. Mencacci
Corresponding author: Dr. Niccolò E. Mencacci (niccolo.mencacci@northwestern.edu) - Department of Neurology, Northwestern University Feinberg School of Medicine, Chicago, USA

Pubblicato su: Brain, Volume 143, Issue 9, September 2020, Pages 2771–2787 https://doi.org/10.1093/brain/awaa217

Niccolò E. Mencacci

Niccolò E. Mencacci

Department of Neurology, Northwestern University Feinberg School of Medicine, Chicago, USA

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Brain
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La distonia è un disordine neurologico, caratterizzato da contrazioni muscolari sostenute o intermittenti che determinano movimenti e posture involontarie, che nella maggior parte dei casi si verifica in assenza di evidenti alterazioni cerebrali strutturali. Pur trattandosi di un disordine del movimento, la distonia è una condizione eterogenea e può essere spesso caratterizzata anche da disturbi neuropsichiatrici, ovvero ansia, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo e schizofrenia. Nonostante l’identificazione di un crescente numero di mutazioni genetiche, i meccanismi eziopatogenetici e fisiopatologici della distonia, nonchè le possibili relazioni con i suoi sintomi motori e non-motori (inclusi i disturbi neuropsichiatrici) rimangono tutt’ora in larga misura sconosciuti. Nel presente lavoro condotto dal Dott. Niccolò Emanuele Mencacci dell’Università di Chicago, in collaborazione con un gruppo di ricerca internazionale, sono state ulteriormente indagate le basi genetiche della distonia, con particolare riferimento alle possibili relazioni con i disturbi neuropsichiatrici mediante un approccio scientifico innovativo. Inizialmente è stata stilata una lista dei geni responsabili delle principali forme monogeniche di distonia. Facendo riferimento a dataset internazionali, è stata quindi analizzata l’espressione dei vari geni considerati a livello di singole aree (in particolare sostanza nera e striato) e nell’ambito di network cerebrali identificati sulla base della co-espressione genica (in particolare gangli della base ed aree frontali). Lo studio dimostra che più geni, funzionalmente e biologicamente integrati, contribuiscono all’eziopatogenesi della distonia e ciò verosimilmente avviene attraverso l’alterata regolazione dei sistemi di neurotrasmissione dopaminergica che coinvolge i sistemi cortico-nucleobasali. Inoltre, i risultati dello studio suggeriscono che i sintomi neuropsichiatrici della distonia sono probabilmente intrinseci ai suoi meccanismi neurobiologici e fisiopatologici. I risultati dello studio potrebbero avere importanti implicazioni cliniche, in particolare in termini di una corretta classificazione delle distonia o per meglio comprendere le complesse relazioni genotipo-fenotipo nell’ambito della distonia.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Agosto 2020

Natural history of motor symptoms in Parkinson’s disease and the long-duration response to levodopa

Autori:  Roberto Cilia, E. Cereda, A. Akpalu, F.S. Sarfo, M. Cham, R. Laryea, V. Obese, K. Oppon, F. Del Sorbo, S. Bonvegna, A.L. Zecchinelli, G. Pezzoli
First author: Dr. Roberto Cilia, Dr. Emanuele Cereda (coauthorship)
Corresponding author: Dr. Roberto Cilia (roberto.cilia@istituto-besta.it) - Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta, Milano 

Pubblicato su: Brain, Volume 143, Issue 8, August 2020, Pages 2490–2501, https://doi.org/10.1093/brain/awaa181

Roberto Cilia

Roberto Cilia

Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta, Dipartimento di Neuroscienze Cliniche, Unità di Parkinson e Disturbi del Movimento, Milano

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Al giorno d’oggi, può essere difficile effettuare valutazioni e stime precise sulla naturale progressione della malattia di Parkinson. Infatti, nella valutazione longitudinale di pazienti trattati farmacologicamente, gli effetti sintomatici, soprattutto a lungo termine, delle terapie dopaminergiche (in particolare della levodopa) non sono del tutto chiari e rappresentano un potenziale fattore di confondimento. Nello studio prospettico condotto in pazienti drug-naive dell'Africa subsahariana dai Dottori Roberto Cilia ed Emanuele Cereda è stato descritto il decorso dei sintomi motori nella malattia di Parkinson, a partire dalla valutazione dell’OFF naturale e sono stati quindi indagati gli effetti del quotidiana assunzione di levodopa sulla progressione dei sintomi e dell'invalidità motoria. Sono stati complessivamente arruolati 30 pazienti con malattia di Parkinson, con esordio nella V-VI decade di età e con durata di malattia di circa 7 anni. Dopo aver avviato la monoterapia con levodopa, i pazienti sono stati valutati prospetticamente fino a due anni di distanza, utilizzando la Unified Parkinson's Rating Scale (UPDRS-III). Gli autori hanno osservato un significativo miglioramento dei sintomi motori del 30% circa nei pazienti sottoposti a terapia con levodopa. Alle valutazioni di follow-up, a distanza di 1 e 2 anni, i punteggi UPDRS-III rilevati in fase OFF al mattino, sono risultati inferiori al medesimo valore rilevato alla valutazione basale. Rispetto alla naturale progressione della disabilità motoria, è stato inoltre stimato che il trattamento con levodopa ha determinato una diminuzione, su base annua, del 30% circa dei punteggi UPDRS-III rilevati in fase OFF (3,33 contro 2,30 punti/anno). Inoltre, in confronto al decorso naturale della malattia, anche la disabilità notturna è risultata meno grave nei pazienti trattati. Nel complesso, i dati del presente lavoro dimostrano quindi che l'entità della risposta di lunga durata alla levodopa sembra essere effettivamente superiore a quanto stimato in studi precedenti. Gli autori sottolineano correttamente che il presente lavoro non dimostra che la levodopa abbia un eventuale impatto sulla progressione dei processi neurodegenerativi della malattia di Parkinson, piuttosto l’effetto sintomatico di lunga durata del farmaco ritarderebbe nel tempo la naturale emergenza di sintomi e disabilità motoria nel corso della malattia. Lo studio enfatizza l’importanza del comprendere il decorso naturale della malattia di Parkinson e la risposta a lungo termine alla levodopa. Ciò, può aiutare ad implementare l’approccio terapeutico ai pazienti ed a meglio interpretare i risultati dei trial clinici randomizzati su nuovi farmaci finalizzati a modificare la progressione della malattia di Parkinson.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Luglio 2020

GBA‐Related Parkinson's Disease: Dissection of Genotype–Phenotype Correlates in a Large Italian Cohort

Autori:  Simona Petrucci, M. Ginevrino, I. Trezzi, E. Monfrini, L. Ricciardi, A. Albanese, M. Avenali, P. Barone, A.R. Bentivoglio, V. Bonifati, F. Bove, L. Bonanni, L. Brusa, C. Cereda, G. Cossu, C. Criscuolo, G. Dati, A. De Rosa, R. Eleopra, G. Fabbrini, L. Fadda, M. Garbellini, B. Minafra, M. Onofrj, C. Pacchetti, I. Palmieri, M.T. Pellecchia, M. Petracca, M. Picillo, A. Pisani, A: Vallelunga, R. Zangaglia, A. Di Fonzo, F. Morgante, E.M. Valente
Corresponding author: Dr.ssa Enza Maria Valente (enzamaria.valente@unipv.it ) - Dipartimento di Medicina Molecolare, Università di Pavia

Pubblicato su: Mov Disord. 2020 Jul 13. doi: 10.1002/mds.28195.

Simona Petrucci

Simona Petrucci

Dipartimento di Medicina Clinica e Molecolare, Sapienza Università di Roma

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Le mutazioni del gene che codifica l’enzima glucocerebrosidasi (GBA), rappresentano il fattore di rischio genetico più comune per la malattia di Parkinson. In questi casi, è noto che la malattia di Parkinson è caratterizzata clinicamente da una più precoce insorgenza, maggior compromissione motoria, maggiore rischio di declino cognitivo e depressione e da una progressione più rapida di malattia con ridotta sopravvivenza. Tuttavia, l'impatto delle diverse varianti del gene GBA nel contesto dell’intero spettro clinico della malattia di Parkinson è argomento tutt’ora non del tutto chiarito. Lo scopo principale dello studio condotto dalla Dott.ssa Petrucci è stato indagare ulteriormente tipologia e frequenza delle mutazioni del gene GBA in un’ampia coorte di pazienti italiani con malattia di Parkinson e delinearne i correlati clinici con particolare riferimento alla presenza dei sintomi non-motori. A questo proposito, è stata effettuata un’analisi dell’intero gene GBA in oltre 800 pazienti ed eventuali mutazioni sono state suddivise in classi di diversa gravità; è stata inoltre misurata l'attività della β-glucocerebrosidasi in un sottogruppo di pazienti. Sono state complessivamente rilevate 36 varianti nel 14% dei casi (percentuale che aumentava al 20% nei casi con esordio precoce di malattia). Lo studio ha quindi confermato che la malattia di Parkinson associata a mutazioni del gene GBA rappresenta una condizione molto diffusa in Italia e che vi è evidenza di una significativa associazione di alcune specifiche mutazioni con positività della storia familiare, esordio precoce dei sintomi e rapida progressione della malattia. Un risultato originale dello studio ha riguardato l’identificazione di una significativa associazione tra le varianti del gene GBA e diversi sintomi non motori, in particolare ansia, disordini del controllo degli impulsi, allucinazioni e disautonomia. In sintesi, i risultati dello studio hanno quindi permesso di espandere  le nostre conoscenze circa i possibili correlati clinici della malattia di Parkinson in presenza di mutazioni del gene GBA con particolare riferimento ai sintomi non motori dei pazienti. Diverse mutazioni GBA potrebbero essere quindi alla base di fenotipici clinici distinti. I risultati del presente studio, oltre alle implicazioni cliniche, potrebbero avere risvolti anche in termini di un chiarimento dei meccanismi patogenetici. Di conseguenza i risultati dello studio potrebbero essere anche rilevanti nel tentativo di sviluppare strategie terapeutiche volte a modificare il decorso della malattia di Parkinson. A partire dalle osservazioni di questo lavoro, potrebbe essere interessante indagare ulteriormente in studi longitudinali se e in che termini, distinti fenotipi clinici della malattia di Parkinson legati a diverse mutazioni del gene GBA possano differire in termini di progressione nel tempo e/o sopravvivenza.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Giugno 2020

Skin biopsy may help to distinguish multiple system atrophy– parkinsonism from Parkinson’s Disease with orthostatic hypotension

Autori:  Vincenzo Donadio, Incensi A., Rizzo G., De Micco R., Tessitore A., Devigili G., Del Sorbo F., Bonvegna S., Infante R., Magnani M., Zenesini C., Vignatelli L., Cilia R., Eleopra R., Tedeschi G., Liguori R.
Corresponding author: Dr. Vincenzo Donadio (vincenzo.donadio@unibo.it) - IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche, Bologna

Pubblicato su: Mov Disord. 2020 Jun 18. doi: 10.1002/mds.28126. Online ahead of print.

Vincenzo Donadio

Vincenzo Donadio

IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche, UOC Clinica Neurologica - Bologna

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La diagnosi differenziale delle sindromi parkinsoniane è  una delle problematiche più comuni che il neurologo deve fronteggiare nella pratica clinica. La diagnosi differenziale è particolarmente difficile soprattutto in particolari casi, ad esempio il distinguere l’ atrofia multisistemica di tipo parkinsoniano (MSA-P) dalla malattia di Parkinson con ipotensione ortostatica (PD+OH) dal momento che queste due specifiche malattie hanno una presentazione clinica molto simile. Sebbene non ancora disponibile come analisi di routine, la biopsia cutanea rappresenta una promettente tecnica, a basso costo e di esecuzione relativamente facile, che potrebbe fornire dati promettenti per la diagnosi in vivo delle sinucleopatie, come dimostrato in un crescente numero di pubblicazioni scientifiche. Nello studio condotto dal Dott. Vincenzo Donadio, in collaborazione con colleghi delle Università di Bologna, Napoli e Milano, è stato indagato se è possibile distinguere l’MSA-P dal PD+OH mediante biopsie cutanee e tecniche di immunocolorazione dell’ α-sinucleina fosforilata delle terminazioni nervose somatiche ed autonomiche (postgangliari) presenti a livello dermico. Sono stati complessivamente reclutati 50 pazienti con parkinsonismo e ipotensione ortostatica cronica, equamente ripartiti per diagnosi, sulla base di criteri clinici convalidati, in MSA-P e PD+OH e durata di malattia paragonabile nei due gruppi. Nel contesto dell’inquadramento diagnostico dei pazienti, in particolare ai fini della valutazione dell’ipotensione ortostatica, gli Autori hanno fatto riferimento ad ulteriori indagini cliniche e a test diagnostici specifici. I pazienti sono stati quindi sottoposti ad una biopsia cutanea a livello cervicale, della coscia e della gamba. Il deposito di α-sinucleina fosforilata nelle terminazioni nervose cutanee nei pazienti con MSA-P è risultato differente da quello osservato nei pazienti con PD+OH. Nei pazienti con MSA-P è stato infatti osservato un prevalente coinvolgimento delle fibre somatiche con scarso coinvolgimento delle fibre autonomiche. Al contrario, nei pazienti con PD+OH è stato osservato che i depositi di α-sinucleina fosforilata erano presenti soprattutto nelle fibre autonomiche con scarso coinvolgimento delle fibre somatiche. Questi risultati sono in linea con le precedenti evidenze ottenute mediante scintigrafia miocardica con metaiodobenzilguanidina (MIBG) in pazienti con parkinsonismo associato a disautonomia laddove è stata riscontrata un alterata innervazione cardiaca nei pazienti PD+OH rispetto ai pazienti MSA-P. In conclusione, i risultati del presente studio, effettuato su un’ampia casistica di soggetti con parkinsonismo, suggeriscono  che l’analisi dell’α-sinucleina fosforilata nelle terminazioni nervose cutanee potrebbe permettere di differenziare l’ MSA-P dal PD+OH. Sarà necessario confermare i promettenti risultati del presente lavoro in studi futuri e sarà importante inoltre indagare specificatamente se la biopsia cutanea possa o meno avere una maggiore sensibilità e specificità, rispetto alla scintigrafia miocardica, nella diagnosi differenziale di MSA-P e PD+OH.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Maggio 2020

Unravelling the enigma of cortical tremor and other forms of cortical myoclonus

Autori:  Anna Latorre, Rocchi L., Magrinelli F., Mulroy E., Berardelli A., Rothwell J.C., Bhatia K.P.
Corresponding author: Professor Kailash P. Bhatia (k.bhatia@ucl.ac.uk) - University College London, Queen Square London

Pubblicato su: Brain. 2020 May 17;awaa129. doi: 10.1093/brain/awaa129. Online ahead of print.

Latorre Anna

Anna Latorre

Department of Clinical and Movement Neurosciences, Queen Square Institute of Neurology, University College London, London, United Kingdom  

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Brain
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Il corretto inquadramento del paziente con tremore può essere particolarmente difficile, soprattutto in caso di caratteristiche cliniche atipiche o di particolari rilievi elettrofisiologici, ad esempio ipereccitabilità della corteccia sensomotoria, o di evidenze elettroencefalografiche. È il caso del cosiddetto ‘tremore corticale’, una forma di tremore d’azione di elevata frequenza e bassa ampiezza agli arti superiori, bilaterale e simmetrico, prevalentemente distale. Per quanto dibattuto, si ritiene  che il ‘tremore corticale’ sia una variante del ‘mioclono corticale‘ caratterizzata dalla peculiare ritmicità. A partire dalle prime sporadiche osservazioni di inizio anni ‘90, sono stati riportati numerosi casi in letteratura con ‘tremore corticale’, che costituisce la manifestazione principale della sindrome attualmente nota come ‘tremore mioclonico corticale familiare ed epilessia’ (con acronimo FCMTE dalla corrispettiva definizione inglese). Nonostante alcune delle principali caratteristiche eziopatogenetiche, fisiopatologiche e cliniche delle condizioni caratterizzate da  ‘tremore corticale’ siano state delineate, ad oggi permangono numerosi ed importanti aspetti  non del tutto chiari. Nel presente lavoro, la Dott.ssa Latorre ha effettuato una accurata revisione di letteratura. I vari aspetti clinici e fisiopatologici del ‘tremore corticale’ sono stati discussi nel contesto dello spettro delle varie condizioni neurologiche caratterizzate da ‘mioclono corticale', incluse forme localizzate e generalizzate. Sul piano fisiopatologico è stato discusso ed enfatizzato in particolare il ruolo del cervelletto. A questo proposito, sono stati delineati i diversi possibili meccanismi mediante i quali è possibile che il cervelletto sia implicato nella genesi del ‘tremore/mioclono corticale’. Tra questi, è stato discusso il possibile coinvolgimento della via cerebello-talamo-corticale e le conseguenti modificazioni dei meccanismi di integrazione sensitivo-motoria a livello corticale. Tra gli aspetti fisiopatologici da chiarire, rimangono i complessi meccanismi ed interazioni tra fenomeni inibitori in vare aree cerebrali in grado di sostenere l'attività ripetitiva ritmica alla base del ‘tremore/miclono corticale’. È stata infine condotta un’accurata rassegna delle principali caratteristiche cliniche e genetiche della FCMTE con particolare riferimento alle più recenti evidenze. Queste ultime riguardano la presenza di espansioni non codificanti in diversi geni, analogamente a quanto osservato in alcune forme di atrofia spino-cerebellare. Tuttavia, i meccanismi eziopatogenetici dell’FCMTE restano da definire. Il presente lavoro sottolinea l’importanza del ragionamento fisiopatologico, nel contesto di accurate osservazioni cliniche ed informazioni con valenza eziopatogenetica, ai fini del raggiungimento di un più accurata comprensione dei vari livelli di complessità che spesso caratterizzano i disordini del movimento.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Aprile 2020

Effectiveness of physiotherapy on freezing of gait in Parkinson’s Disease: a systematic review and meta-analyses

Autori:  Carola Cosentino , Baccini M., Putzolu M., Ristori D., Avanzino L., Pelosin E.
Corresponding author: Prof.ssa Elisa Pelosin (elisa.pelosin@unige.it) - Università di Genova

Pubblicato su: Movement Disorders, Vol. 35, No. 4, 2020

Carola Cosentino

Carola Cosentino

Dipartimento di Neuroscienze, Riabilitazione, Oftalmologia, Genetica e Scienze Materno-Infantili, DINOGMI, Università di Genova  

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Il cosiddetto fenomeno del congelamento della deambulazione (freezing) nella Malattia di Parkinson consiste in una breve, episodica assenza (o una marcata riduzione) della progressione in avanti dei piedi nonostante l'intenzione di camminare. Si tratta di uno dei disturbi dell'andatura più disabilitanti nei pazienti con Malattia di Parkinson. Ad oggi, non si dispone di un trattamento risolutivo per il freezing. Nonostante questo, un miglioramento soddisfacente del freezing può essere ottenuto mediante approccio multidisciplinare, fisioterapia inclusa. Pur riconosciuta come un possibile trattamento del freezing nella Malattia di Parkinson, l’effettiva efficacia della fisioterapia nella gestione del freezing nella Malattia di Parkinson non è del tutto chiara. Nel presente lavoro, La Dott.ssa Carola Cosentino e coll. Hanno effettuato una revisione sistematica della letteratura esistente sugli effetti a breve e a lungo termine della fisioterapia per il trattamento del fenomeno del freezing nei pazienti con Malattia di Parkinson. A questo proposito sono stati presi in considerazione solo studi controllati randomizzati. Come outcome primario è stato preso in considerazione il punteggio ottenuto mediante la somministrazione del questionario sul freezing della deambulazione che, ad oggi, rappresenta l'unica misura validata utilizzata per quantificare l'impatto del freezing della deambulazione sulla vita quotidiana dei pazienti. Tra gli oltre 1000 studi identificati, sono stati selezionati 19 studi rilevanti per un totale di 913 pazienti con Malattia di Parkinson. È stata rilevata una notevole variabilità dei suddetti studi in termini di dimensione campionaria, metodologia applicata e tipologia di intervento. I risultati della presente revisione sistematica di letteratura dimostrano l'efficacia a breve termine della fisioterapia nel migliorare il freezing della deambulazione, e gli effetti sembrano tanto più efficaci quando vengono applicati interventi personalizzati. In particolare, per quanto concerne le specifiche categorie di intervento, è emerso che i più efficaci approcci fisioterapeutici del freezing consistono in tecniche che si basano sull’ osservazione dell'azione, sull’uso del tapis-roulant combinato con tecniche di segnalazione (cueing) e infine nell'allenamento prolungato in ambiente domiciliare. Gli effetti della fisioterapia nel migliorare il freezing della deambulazione sembrano inoltre essere mantenuti anche a distanza di tempo (entro alcune settimane dal termine della fisioterapia). In conclusione, nonostante i risultati degli studi sin qui conseguiti siano certamente promettenti, i potenziali effetti benefici della fisioterapia nella gestione del paziente con freezing nel contesto della malattia di Parkinson dovranno essere ulteriormente indagati. A questo proposito, nella parte conclusiva del lavoro gli Autori sottolineano l’importanza e la necessità di effettuare ulteriori studi randomizzati di elevata qualità su ampie casistiche di pazienti. Sarà inoltre necessario delineare meglio gli effetti a lungo termine della fisioterapia in studi longitudinali nonché perfezionare le tecniche di valutazione clinica (o strumentale) del freezing. Sarà altresì importante l’identificazione di condizioni di controllo adeguate, con cui confrontare gli effetti del trattamento fisioterapico utilizzato in ciascun caso.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Marzo 2020

Early stage Parkinson's patients show selective impairment in reactive but not proactive inhibition

Autori: Veronica Di Caprio, Modugno N., Mancini C., Olivola E., Mirabella G.
Corresponding author: Dr.Giovanni Mirabella (giovanni.mirabella@uniroma1.it) - Sapienza Università di Roma

Pubblicato su: Movement Disorders, Vol. 35, No. 3, 2020

Veronica Di Caprio

Veronica Di Caprio

Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) Neuromed, Pozzilli (IS), Italy  

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Dal punto di vista comportamentale, la capacità di prendere decisioni opportune si basa sulla corretta valutazione dei possibili scenari in cui è possibile imbattersi. Tuttavia, non è sempre possibile predire quelle che possono essere le conseguenze delle azioni intraprese ed è pertanto necessario gestire un certo grado di incertezza. In molti casi, in base alle mutevoli condizioni ambientali, può essere necessario inibire repentinamente delle azioni in base al riscontro di un segnale specifico, per evitare delle conseguenze particolarmente sfavorevoli (inibizione reattiva). In altri casi può essere necessario adattare la strategia motoria secondo determinati vincoli inerenti ad un determinato contesto ambientale (inibizione proattiva). Nell’insieme, le suddette funzioni inibitorie rappresentano un punto chiave del controllo esecutivo e garantiscono la necessaria flessibilità comportamentale in contesti variabili. È noto che i deficit nel controllo inibitorio rappresentano parte integrante della malattia di Parkinson e, secondo alcune evidenze di letteratura, potrebbero avere anche dei risvolti in chiave di monitoraggio della progressione di malattia e diagnosi differenziale. Restano tuttavia aperte numerose questioni, in particolare non è chiaro se i deficit nella inibizione reattiva, proattiva (o entrambi) caratterizzino la fase iniziale della malattia di Parkinson. Studiare i pazienti in fase precoce di malattia (quando i sintomi motori predominano su un lato del corpo) rappresenta una condizione ideale per verificare se sussiste inoltre una eventuale dominanza emisferica destra nel controllo inibitorio. Nello studio sperimentale condotto dalla Dott.ssa Di Caprio sono stati valutati 34 pazienti con punteggio 1 alla scala di Hoehn e Yahr, di questi 17 pazienti con sintomi sul lato sinistro e 17 con sintomi sul lato destro; sono stati inoltre inclusi nello studio 24 soggetti sani di controllo. I partecipanti allo studio sono stati sottoposti ad un test specifico (reaching stop-signal task) per testare sia l'inibizione reattiva che proattiva. I risultati dello studio dimostrano una selettiva alterazione dell'inibizione reattiva nei pazienti rispetto ai partecipanti sani ma non significative differenze nella inibizione proattiva tra i due gruppi. Inoltre, non sono state riscontrate differenze di lato nei pazienti. Quest’ultimo dato ridimensiona l’ipotesi della dominanza emisferica alla base del controllo inibitorio e avvalora invece l’idea che questa funzione possa invece basarsi sulla cooperazione tra i due emisferi. Lo studio chiarisce pertanto alcuni aspetti che attengono in particolare all’evoluzione nel tempo dei deficit del controllo inibitorio nella malattia di Parkinson. A questo proposito, gli autori enfatizzano anche i possibili risvolti clinici dei risultati dello studio, sottolineandone ad esempio le potenziali implicazioni in termini di valutazione del decorso della malattia. Un aspetto che non viene affrontato nel lavoro, ma che potrebbe essere altrettanto importante, riguarda la eventuale applicazione della metodologia applicata dagli autori per mettere in evidenza possibili differenze tra i risultati ottenuti nella malattia di Parkinson, altre sindromi parkinsoniane e condizioni tremorigene che rientrano in diagnosi differenziale, quest’ultimo campo potrebbe certamente rappresentare un’interessante evoluzione del lavoro sin qui svolto.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Febbraio 2020

Α-synuclein oligomers in skin biopsy of idiopathic and monozygotic twin patients with Parkinson’s disease

Autori: Samanta Mazzetti , Basellini M.J., Ferri V., Cassani E., Cereda E., Paolini M., Calogero A.M., Bolliri C., De Leonardis M., Sacilotto G., Cilia R., Cappelletti G., Pezzoli G.
Corresponding author: Prof.ssa Graziella Cappelletti (graziella.cappelletti@unimi.it)
- Department of Biosciences, Università degli Studi di Milano

Pubblicato su: Brain. 2020 Feb 5. pii: awaa008. doi: 10.1093/brain/awaa008. [Epub ahead of print]

Mazzetti Samanta

Mazzetti Samanta

Department of Biosciences, Università degli Studi di Milano, Milan, Italy Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson, Milan, Italy

Articolo disponibile su:
Brain
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La patogenesi della malattia di Parkinson coinvolge la disfunzione di molteplici processi intracellulari, tra cui, ad esempio i meccanismi alla base dell'oligomerizzazione e all’accumulo di α-sinucleina. Sebbene un crescente numero di lavori scientifici abbia indagato la presenza e la distribuzione degli oligomeri di α-sinucleina nel sistema nervoso centrale nella malattia di Parkinson e nell’Atrofia Sistemica Multipla, gli aspetti patologici correlati all’accumulo di  α-sinucleina nel sistema nervoso periferico, in queste stesse condizioni patologiche, rimangono ad oggi scarsamente studiati. Nello studio condotto dalla Dott.ssa Mazzetti, su prelievi bioptici di cute in un gruppo di pazienti con malattia di Parkinson sporadica, è stato dimostrato per la prima volta l’accumulo di oligomeri di α-sinucleina all'interno dei terminali sinaptici delle fibre autonomiche. La differenza nell'accumulo di oligomeri di α-sinucleina è stata inoltre confermata in una coorte di 19 gemelli monozigoti discordanti per malattia di Parkinson. I risultati dello studio suggeriscono quindi, indirettamente, che la predisposizione genetica è un fattore importante, ma non sufficiente, nell'eziopatogenesi della malattia di Parkinson e sottolineano l’importanza del contributo dei fattori ambientali. Gli autori sottolineano inoltre, correttamente, che i risultati del presente lavoro non possono essere intrepretati per cercare di chiarire il vero significato patologico degli oligomeri di α-sinucleina, dal momento che la loro presenza potrebbe essere necessaria, ma non sufficiente, per innescare la degenerazione neuronale. Nello studio è stata infine proposta una procedura quantitativa per valutare l’accumulo di oligomeri di α-sinucleina nei pazienti con buona sensibilità, specificità e valore predittivo positivo sul piano diagnostico. I risultati dello studio avvalorano quindi l'ipotesi che, in prospettiva, gli oligomeri dell’ α-sinucleina potrebbero essere utilizzati come biomarcatore affidabile nel processo diagnostico malattia di Parkinson. In conclusione, il presente lavoro offre spunti interessanti sul possibile ruolo fisiologico e patologico dell’α-sinucleina nel contesto del sistema nervoso periferico. L'ipotesi di un potenziale effetto tossico degli oligomeri della a-sinucleina nella malattia di Parkinson, così come il potenziale utilizzo in ambito clinico, sono argomenti che dovranno necessariamente essere affrontato ed ulteriormente approfonditi in futuri studi prospettici.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Gennaio 2020

Sex differences in movement disorders

Autori: Sara Meoni, Macerollo A. & Moro E.

Pubblicato su: Nat Rev Neurol. 2020 Jan 3. doi: 10.1038/s41582-019-0294-x. [Epub ahead of print]

Meoni Sara

Meoni Sara

Movement Disorders Unit, Division of Neurology, Grenoble Alpes University, Grenoble, France;
INSERM U1216, Grenoble - Institute of Neurosciences, Grenoble, France

Articolo disponibile su:
Nat Rev Neurol
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Nell’ambito dei disordini del movimento stanno emergendo numerose e significative differenze legate al sesso. A questo proposito il termine “sesso” viene specificatamente utilizzato in riferimento all’assetto genetico di ciascun individuo e preferito al termine alternativo "genere". Quest’ultimo termine infatti riflette, oltre che fattori biologici, anche la propria identità personale e sociale e l’influenza di eventuali fattori ambientali. I fattori genetici legati al “sesso” di ciascun individuo sono in grado di influenzare numerosi aspetti anatomici e funzionali del sistema nervoso centrale, ma anche gli eventuali meccanismi patogenetici e fisiopatologici e di conseguenza le caratteristiche cliniche, inclusa la eventuale risposta alle terapie, di un ampio spettro di disordini del movimento. Nel presente articolo, la Dott.ssa Sara Meoni e coautori presentano una rassegna aggiornata e dettagliata delle differenze tra uomini e donne affetti da malattia di Parkinson e/o altri comuni disturbi del movimento ipercinetico, ovvero tremore essenziale, distonia, malattia di Huntington e altre sindromi coreiche, sindrome di Tourette e altre condizioni patologiche. Per quanto riguarda i disturbi ipocinetici del movimento, gli autori si sono soffermati sulla malattia di Parkinson, tralasciando altre condizioni parkinsoniane su cui non abbiamo dati a sufficienza. Nella malattia di Parkinson è stato osservato che gli estrogeni possono avere un effetto protettivo sulla malattia. Ciò è testimoniato dall’osservazione che le donne mostrano una minore prevalenza e incidenza della malattia di Parkinson, tendono ad essere più anziane all'esordio della malattia, e in ogni caso hanno una minore probabilità di sviluppare un sottotipo “maligno” di malattia. Ad ulteriore conferma delle influenze esercitate dai fattori genetici legati al “sesso” nell’ambito della malattia di Parkinson, è noto che le donne sviluppano più frequentemente degli uomini fluttuazioni motorie e discinesie, o altri sintomi. Per quanto attiene ai disturbi del movimento ipercinetici, in estrema sintesi, gli estrogeni sembrano predisporre e/o esacerbare condizioni ipercinetiche come corea e distonia. D’altro canto, gli ormoni androgeni sembrano esacerbare in particolar modo le manifestazioni ticcose. In conclusione, ad oggi, gli effetti dei fattori genetici legati al “sesso” sui disordini del movimento sono poco studiati pur rappresentando un settore di estremo interesse e attualità. È possibile che studi futuri chiariranno più a fondo le complesse correlazioni e interazioni con tra fattori genetici legati al “sesso” e i fattori ambientali. Sarà necessario inoltre approfondire gli effetti dei fattori genetici legati al “sesso” in termini di funzionamento cerebrale, in particolare dei gangli della base e di altre aree cerebrali. Nuove conoscenze in questo settore potranno certamente essere di aiuto per una più accurata caratterizzazione clinica dei pazienti, nell’eventuale elaborazione di una prognosi più accurata, nonché nello sviluppo di opzioni terapeutiche innovative e individualizzate per ciascun paziente. In futuro, sarà pertanto necessario tenere in alta considerazione le possibili differenze legate al “sesso”, nell’ambito dei disordini del movimento a fini di ricerca e più in generale nella formulazione di politiche di salute pubblica.

A cura di: M. Bologna (Roma)