Articolo del mese

I migliori articoli pubblicati da autori italiani
sulle maggiori riviste scientifiche italiane e straniere


Articoli Scientifici 2018

Dicembre 2018

Unraveling Gut Microbiota in Parkinson’s Disease and Atypical Parkinsonism

Autori:Barichella M., Severgnini M., Cilia R., Cassani E., Bolliri C., Caronni S., Ferri V., Cancello R., Ceccarani C., Faierman S., Pinelli G., De Bellis G., Zecca L., Cereda E., Consolandi C., Pezzoli G.

Corresponding author:Cereda E. Clinical Nutrition and Dietetics Unit, Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, Viale Golgi 19, 27100 Pavia
Pubblicato su: Mov Disord. 2018; Dec 21. doi: 10.1002/mds.27581

Michela Barichella

Resp. Medico UOS Nutrizione Clinica, Centro Parkinson ASST - G. Pini-CTO di Milano, Italy

Articolo disponibile su: Pubmed

Nonostante diversi studi suggeriscano che le alterazioni del microbiota intestinale possono giocare un ruolo nella patogenesi della malattia di Parkinson (MP), i dati sono ancora estremamente eterogenei e contrastanti. I dati di letteratura difformi potrebbero essere spiegati, in alcuni studi, dalla numerosità campionaria relativamente ridotta dei campioni oggetto di analisi oppure da inadeguato controllo di potenziali fattori di confondimento, che possono modificare il microbiota intestinale, come le abitudini alimentari. Nel presente lavoro, la Dott.ssa Michela Barichella e il suo gruppo di ricerca hanno valutato possibili differenze nel profilo dei microbiota intestinale in ampia popolazione di oltre 300 partecipanti, tra controlli sani, pazienti affetti da MP (incluso un sotto-gruppo di pazienti de novo) e parkinsonismi atipici, ovvero atrofia multi-sistemica (MSA) e paralisi sopranucleare progressiva (PSP). Sono state inoltre indagate possibili associazioni tra alterazioni del microbiota intestinale, gravità ed altre caratteristiche cliniche della MP. Gli autori hanno effettuato un sequenziamento dell'RNA ribosomiale su campioni fecali e sono stati presi in considerazione diversi fattori di confondimento, comprese le abitudini alimentari. E’ stata osservata una minore abbondanza di batteri appartenenti alla famiglia dei Lachnospiraceae nei pazienti affetti da MP, rispetto ai controlli sani (indipendentemente dalla durata di malattia). La diminuzione di Lachnospiraceae ed un aumento di batteri appartenenti alle famiglie dei Lactobacillaceae e Christensenellaceae sono stati associati con un profilo clinico peggiore, compreso un maggior grado di compromissione cognitiva, disturbi della deambulazione e instabilità posturale. I pazienti affetti da MSA e PSP avevano cambiamenti del microbiota intestinale simili a quelli riscontrati nella MP, salvo alcune eccezioni. In conclusione, i risultati dello studio supportano l’ipotesi che il microbiota intestinale può essere un fattore implicato nella patogenesi della MP e di altre sindromi parkinsoniane e contribuire alla variabilità interindividuale delle caratteristiche cliniche dei pazienti. Gli autori, sottolineano che i risultati degli studi, su questo argomento, possono essere influenzati da numerosi fattori di fattori di confondimento che dovranno essere presi in considerazione nella conduzione di future ricerche. Sarà necessario, in futuro, effettuare studi prospettici per chiarire un eventuale ruolo della disbiosi intestinale sulla progressione della MP e della altre sindromi parkinsoniane.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Novembre 2018

Biological and clinical manifestations of juvenile Huntington’s disease: a retrospective analysis

Autori:  Fusilli C. , Migliore S., Mazza T., Consoli F., De Luca A., Barbagallo G., Ciammola A., Gatto E.M., Cesarini M., Etcheverry J.L., Parisi V., Al-Oraimi M., Al-Harrasi S., Al-Salmi Q., Marano M., Vonsattel J.P.G, Sabatini U., Landwehrmeyer G.B., Squitieri F.
Pubblicato su: Lancet Neurol 2018; 17: 986–93

Caterina Fusilli

Bioinformatics Unit, Fondazione IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza, San Giovanni Rotondo, Italy

Articolo disponibile su: Lancet Neurol

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La malattia di Huntington è una malattia neurodegenerativa rara, causata dalla espansione di triplette nucleotidiche CAG nel gene che codifica la proteina huntingtina. Rispetto alla malattia di Huntington che esordisce in età adulta, la malattia di Huntington giovanile (insorgenza entro i 20 anni di età) è una forma ancor più rara e poco studiata. Nel presente lavoro, la Dott.ssa Caterina Fusilli ed il gruppo di ricercatori coordinati dal Prof. Ferdinando Squitieri hanno caratterizzato l'effetto della dimensione della ripetizione di CAG nella malattia di Huntington giovanile in termini di presentazione clinica, progressione della malattia (valutata mediante Unified Huntington's Disease Rating Scale) e sopravvivenza. Sono state esaminate retrospettivamente le informazioni cliniche e genetiche raccolte in banche dati istituzionali nazionali ed estere a partire dal 2004. Ai fini dello studio, sono stati individuati 36 pazienti affetti da malattia di Huntington giovanile e 197 pazienti con malattia di Huntington adulta. Oltre al confronto delle caratteristiche cliniche dei pazienti con forme giovanile e adulta di malattia, sono stati confrontati i sottogruppi di pazienti con malattia di Huntington giovanile, con elevata o bassa espansione di triplette CAG. Rispetto alla malattia di Huntington adulta, è stata osservata una più rapida progressione di malattia ed una minore sopravvivenza nella malattia di Huntington giovanile. Lo studio ha inoltre dimostrato aspetti clinici differenti nei sottogruppi di malattia di Huntington giovanile con elevata o bassa espansione di triplette. In particolare, nel sottogruppo con elevata espansione di triplette è stato osservato ritardo di sviluppo, grave deterioramento della deambulazione, ed una maggior frequenza di crisi epilettiche. I risultati di questo studio dimostrano che nella malattia di Huntington possono essere innescati diversi meccanismi patogenetici in relazione alla espansione delle triplette nucleotidiche, che si possono quindi tradurre in manifestazioni fenotipiche distinte. Lo studio sottolinea inoltre la necessità di una opportuna riclassificazione della malattia di Huntington, soprattutto nell’ottica della possibilità di formulare una più accurata prognosi della malattia.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Ottobre 2018

Levodopa-Carbidopa intestinal gel Infusion and weight loss In Parkinson’s disease

Autori: Fabbri M., Zibetti M., Beccaria L., Merola A., Romagnolo A., Montanaro E., Ferreira J.J., Palermo S., Lopiano L. 
Pubblicato su: European Journal of Neurology. 2018 Oct 22. doi: 10.1111/ene.13844

Margherita Fabbri

Department of Neuroscience "Rita Levi Montalcini", University of Torino, Torino Instituto de Medicina Molecular, Faculty of Medicine, University of Lisbon, Lisbona, Portogallo

Articolo disponibile su:  Pubmed

margheritafabbrimd@gmail.com  

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Il calo ponderale è una frequente complicanza della malattia di Parkinson. La perdita di peso può manifestarsi sin dalla fase pre-motoria di malattia, anche diversi anni prima della diagnosi clinica in rapporto alla coesistenza di iposmia, ipomotilità intestinale o depressione. Nel corso della progressione della malattia di Parkinson il calo ponderale dipende in larga misura dall’aumento del dispendio energetico dovuto a rigidità, tremore e dall’eventuale presenza di discinesie indotte da levodopa ed è ancor più frequente ed invalidante in pazienti con malattia avanzata. Ad oggi tuttavia, si sa poco sull’impatto complessivo del calo ponderale, e sui vari fattori che lo determinano, in pazienti in fase avanzata di malattia ed in particolare in quelli sottoposti ad somministrazione intestinale continua di gel a base di levodopa e carbidopa (LCIG). Nel presente studio osservazionale in aperto, basato inoltre sull’analisi retrospettiva di dati clinici, la Dott.ssa Fabbri e i suoi collaboratori hanno ulteriormente indagato la problematica del calo ponderale in un campione di 44 pazienti affetti da malattia di Parkinson in fase avanzata, sottoposti da lungo tempo a trattamento con LCIG. Nello studio sono stati presi in considerazione, oltre allo stato nutrizionale dei pazienti, numerosi aspetti clinici, tra cui la gravità di sintomi e complicanze motorie e la dose giornaliera equivalente di levodopa (LEDD), nonché l’eventuale coesistenza di sintomi non-motori (decadimento cognitivo o depressione) ed infine sono state valutate le comuni attività di vita quotidiana. Nel campione di pazienti studiati è stato riscontrato un calo ponderale in oltre i 2/3 dei casi, con valore medio approssimativo pari al 10% del peso corporeo, nel corso del periodo di trattamento con LCIG (4-6 anni). Un maggior calo ponderale è stato riscontrato in pazienti affetti da discinesie. Al contrario, la presenza di sintomi non-motori, sembra non influire significativamente sul calo ponderale dei pazienti in trattamento con LCIG. Indipendentemente dall’entità del calo ponderale, è stato inoltre osservato che lo stato nutrizionale dei pazienti è influenzato dalla gravità dei sintomi motori e dalla eventuale presenza di disfagia. Lo studio offre nuovi spunti per una miglior caratterizzazione e comprensione del calo ponderale nella malattia di Parkinson. I risultati possono essere rilevanti anche ai fini di una più accurata gestione clinica dei pazienti, ad esempio la necessità di ridurre la dose di LCIG individuale per ottimizzare il rapporto LEDD/kg nei pazienti che sviluppano il calo ponderale. Lo studio sottolinea infine la necessità di effettuare periodicamente una serie di valutazioni nutrizionali nei pazienti, soprattutto in quelli sottoposti a trattamento con LCIG, per identificare i pazienti che potrebbero beneficiare di una eventuale alimentazione enterale di supporto.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Settembre 2018

Fatigue in Parkinson’s Disease: A Systematic Review and Meta-analysis.

Autori: Siciliano M. , Trojano L., Santangelo G., De Micco R., Tedeschi G., Tessitore A.
Pubblicato su: Mov Disord. 2018 Sep 28. doi: 10.1002/mds.27461

Mattia Siciliano

Department of Medical, Surgical, Neurological, Metabolic and Aging Sciences, MRI Research Center SUN-FISM, University of Campania Luigi Vanvitelli - Napoli

Articolo disponibile su:  Pubmed

matsic@hotmail.it

 

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La fatica è generalmente definita come un senso di diminuzione del livello di energia o una sproporzionata percezione dello sforzo eseguito rispetto alle attività intraprese, non spiegato da disturbi medici o psichiatrici e da effetti farmacologici. Nella malattia di Parkinson, la fatica è uno dei sintomi non motori più comuni e invalidanti, che può essere presente sin dalla fase premotoria della malattia. Gli studi ad oggi eseguiti in pazienti affetti da malattia di Parkinson, hanno fornito risultati difformi sulla stima della prevalenza della fatica e dei suoi correlati clinici, riconducibili sia ai differenti approcci metodologici, inclusi gli strumenti di valutazione utilizzati, sia alla eterogeneità delle popolazioni di pazienti esaminati. Nel presente studio, il Dott. Siciliano, in collaborazione con il gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Tessitore, ha effettuato una revisione sistematica ed una meta-analisi dei dati presenti in letteratura al fine di stimare la prevalenza della fatica nella malattia di Parkinson e identificarne i correlati clinici. Sono stati presi in considerazione oltre 2000 lavori, dai quali sono stati selezionati 44 studi (per un totale di oltre 7000 pazienti affetti da malattia di Parkinson). Lo studio ha mostrato una prevalenza della fatica nel 50% nei pazienti, sebbene il valore può essere significativamente influenzato dall'eterogeneità delle scale utilizzate e dalle varie soglie prese in considerazione per definire la presenza del sintomo. E’ stato inoltre osservato che la prevalenza della fatica non differisce tra i pazienti de novo e quelli sottoposti a trattamento farmacologico. Rispetto ai pazienti senza fatica, i pazienti con questo sintomo avevano un'età leggermente più alta, una maggior durata della malattia e una maggior gravità dei sintomi motori ed assumevano una dose giornaliera di farmaci superiore. I pazienti con fatica avevano inoltre un maggior rischio di depressione e punteggi leggermente inferiori alla valutazione mediante MMSE. Inoltre, la fatica è risultata moderatamente associata ad altri sintomi non motori, tra cui apatia, ansia, disturbi del sonno e sonnolenza diurna ed in generale ad una scarsa qualità della vita. Lo studio dimostra pertanto che la fatica è un sintomo non motorio frequente nella malattia di Parkinson, che appare precocemente e persiste per tutto il corso della malattia. Lo studio sottolinea inoltre l’importanza di stabilire criteri diagnostici uniformi per identificare la fatica nella malattia di Parkinson. Una corretta valutazione è essenziale al fine di avviare interventi mirati, farmacologici e non farmacologici, per migliorare la fatica e i sintomi associati e migliorare la qualità della vita nei pazienti con malattia di Parkinson.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Agosto 2018

The natural history of idiopathic autonomic failure: The IAF-BO cohort study

Autori: Giannini G., Calandra-Buonaura G., Asioli G.M., Cecere A., Barletta G., Mignani F., Ratti S., Guaraldi P., Provini F., Cortelli P.
Pubblicato su: Neurology. 2018 Aug 22. pii: 10.1212/WNL.0000000000006243. doi: 10.1212/WNL.0000000000006243

Giulia Giannini

Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie (DIBINEM), Alma Mater Studiorum, Università di Bologna - IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna, Bologna

Articolo disponibile su:  Neurology

giannini.giulia3@gmail.com

 

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Le condizioni caratterizzate da disfunzione autonomica idiopatica rappresentano una problematica clinica rilevante, soprattutto dal punto di vista prognostico. In una consistente percentuale di casi, soprattutto nei primi anni di malattia si associano ulteriori disturbi motori e cognitivi che configurano nel tempo quadri suggestivi di malattia di Parkinson, demenza a corpi di Lewy o atrofia multisistemica. Ad oggi, tuttavia, non sono stati del tutto individuati i fattori predittivi del cosiddetto fenomeno della ‘conversione fenotipica’, ovvero del rischio di transizione da disfunzione autonomica ad un fenotipo più complesso, caratterizzato dalla combinazione con altri sintomi motori e non-motori. A questo proposito, esistono pochi studi che hanno indagato il fenomeno della ‘conversione fenotipica’ in pazienti affetti da disfunzioni autonomiche idiopatiche con oltre 5 anni di storia, ovvero affetti da insufficienza autonomica pura. In questa categoria di pazienti, il rischio di ‘conversione fenotipica’ viene generalmente considerato basso. Le Dottoresse Giulia Giannini e Giovanna Calandra-Buonaura, coautrici delle studio, e i loro collaboratori dell’Università di Bologna, hanno effettuato un’analisi retrospettiva di dati clinici relativi a un’ampia casistica di pazienti. Gli autori hanno esaminato una casistica di oltre 500 pazienti i cui dati erano stati raccolti nell’arco temporale di circa tre decenni. In 50 casi, i pazienti avevano una diagnosi di insufficienza autonomica pura e i dati clinici e strumentali erano stati raccolti longitudinalmente per oltre 5 anni dalla diagnosi. Nella loro casistica, gli Autori hanno rilevato che in circa il 30% dei casi affetti da insufficienza autonomica pura, si assisteva ad una evoluzione clinica in quadri più complessi. Inoltre è stato hanno osservato che le disfunzioni urinarie, i disordini del sonno REM e alcune alterazioni rilevate strumentalmente durante manovra di Valsalva erano i fattori più frequentemente associati al fenomeno della ‘conversione fenotipica’ nei pazienti. I risultati sono particolarmente interessanti in considerazione di diversi aspetti. In primo luogo lo studio si basa su una delle più ampie casistiche di pazienti esistenti sulla storia naturale della disfunzione autonomica idiopatica. In secondo luogo i risultati suggeriscono una continuità tra disfunzione autonomica idiopatica e insufficienza autonomica pura. I risultati sono infine rilevanti a fini prognostici, soprattutto in considerazione della più elevata mortalità nei pazienti in cui si assiste al fenomeno della ‘conversione fenotipica’. Ulteriori studi saranno tuttavia necessari per identificare biomarcatori precoci del rischio di ‘conversione fenotipica’’ in pazienti affetti da disautonomia nelle varie fasi della loro storia naturale.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Luglio 2018

Transcranial direct current stimulation combined with cognitive training for the treatment of Parkinson Disease: A randomized, placebo-controlled study

Autori: Manenti R., Cotelli M.S., Cobelli C., Gobbi E., Brambilla M., Rusich D., Alberici A., Padovani A., Borroni B., Cotelli M.
Pubblicato su: Brain Stimul. 2018 Jul 18. pii: S1935-861X(18)30250-X. doi: 10.1016/j.brs.2018.07.046

Rosa Manenti

Unità di Neuropsicologia, IRCCS Centro San Giovanni di Dio - Fatebenefratelli, Milano

Articolo disponibile su:  Pubmed

rmanenti@fatebenefratelli.eu

 

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Tra i più comuni sintomi non motori che si osservano nella malattia di Parkinson si annoverano frequentemente il declino cognitivo e i disturbi dell'umore. Recenti studi suggeriscono che il training cognitivo potrebbe potenzialmente aiutare ad attenuare i deficit cognitivi in pazienti con malattia di Parkinson. Inoltre, ulteriori evidenze suggeriscono che la tecnica di stimolazione transcranica a corrente continua (tDCS) della corteccia prefrontale dorso laterale potrebbe rappresentare un ulteriore potenziale trattamento, efficace nel ridurre sia i deficit cognitivi che i disturbi dell'umore nei pazienti. Nel presente studio la Dott.ssa Rosa Manenti e i suoi collaboratori hanno specificatamente indagato gli effetti del training cognitivo combinato con tDCS in ventidue pazienti affetti da malattia di Parkinson, secondo un disegno sperimentale in doppio-cieco, randomizzato e controllato. I partecipanti allo studio sono stati trattati mediante tDCS attiva o di controllo (sham), erogate per 25 minuti sulla corteccia prefrontale, associate ad un training cognitivo computerizzato. Ciascun paziente è stato sottoposto a cinque sedute giornaliere di trattamento a settimana per una durata complessiva di due settimane di studio. I pazienti sono stati valutati con scale cliniche all’inizio del trattamento (condizione basale), a due settimane dal termine del trattamento e ad un successivo follow-up di 3 mesi. Gli autori hanno osservato una significativa e prolungata riduzione dei sintomi depressivi nel gruppo sottoposto a tDCS attiva, che persisteva fino al follow-up di 3 mesi. E’ stato inoltre osservato un miglioramento delle prestazioni cognitive, ed in particolare del linguaggio, delle funzioni attentive ed esecutive, senza significative differenze nei sue gruppi sottoposti a tDCS attiva o sham. Tuttavia, il miglioramento della fluenza verbale fonemica è risultato più evidente, rispetto alla valutazione basale, nel gruppo sottoposto a tDCS attiva. In conclusione, nonostante le limitazioni dello studio, ovvero ridotta numerosità campionaria e specificità topografica della tDCS, lo studio dimostra che opportune tecniche di stimolazione transcranica non invasiva combinate con il training cognitivo, potrebbero rappresentare un potenziale approccio terapeutico innovativo nella gestione nella gestione dei sintomi non motori in pazienti affetti da malattia di Parkinson.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Giugno 2018

Spread of dystonia in patients with idiopathic adult-onset laryngeal dystonia

Autori: Esposito M., Fabbrini G., Ferrazzano G., Berardelli A., Peluso S., Cesari U., Gigante A.F., Bentivoglio A.R., Petracca M., Erro R., Barone P., Schirinzi T., Eleopra R., Avanzino L., Romano M., Scaglione C.L., Cossu G., Morgante F., Minafra B., Zibetti M., Coletti Moja M., Turla M., Fadda L., Defazio G.
Pubblicato su: Eur J Neurol. 2018 Jun 23. doi: 10.1111/ene.13731

Marcello Esposito

Dipartimento di Neuroscienze , Scienze Riproduttive e Odontostomatologiche. Università Federico II di Napoli 

Articolo disponibile su:  European Journal of Neurology

marcelloesposito@live.it

 

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La distonia laringea, una delle meno comuni forme di distonie dell’adulto, può presentarsi in forma isolata o associarsi a manifestazioni distoniche in altre distretti corporei. Le forme combinate possono essere segmentali sin dall'esordio della malattia o conseguire al fenomeno della diffusione della distonia da o verso la laringe. Nello studio condotto dal Dott. Esposito, su dati raccolti nel Registro Italiano Distonia (RIDA) da 37 centri italiani, sono state indagate le principali caratteristiche cliniche e demografiche dei pazienti affetti da distonia laringea idiopatica, esordita in età adulta. Nello studio è stata rivolta particolare attenzione al fenomeno della diffusione della distonia. Nel complesso, sono stati esaminati dati relativi a 1131 pazienti inclusi nel RIDA. Gli autori anno osservato che 50 dei 71 pazienti affetti da distonia laringea presentavano un esordio focale a livello laringeo, nei restanti casi veniva riportato esordio in altre aree corporee con successivo coinvolgimento del distretto laringeo. In circa un terzo dei 50 casi con esordio laringeo, si osservava una successiva diffusione in regioni corporee contigue e nella maggior parte dei casi il suddetto fenomeno veniva riportato entro un anno dall'esordio della malattia. I dati dello studio dimostrano quindi che nei pazienti in cui la distonia esordisce a livello laringeo si osserva frequentemente diffusione in altri distretti corporei. Il suddetto fenomeno si osserva di solito precocemente e mostra alcune analogie con la progressione clinica che si osserva in pazienti affetti da blefarospasmo. Nel lavoro, gli Autori menzionano correttamente anche i potenziali limiti del loro studio, ad esempio un possibile bias di riferimento e l’impossibilità ad effettuare ulteriori analisi nelle forme di distonia laringea adduttoria o abduttoria, data la relativa esiguità del campione. Nonostante ciò, il lavoro fornisce informazioni originali riguardanti il fenomeno della diffusione della distonia che possono offrire spunti di riflessione anche in chiave fisiopatologica. Inoltre, i risultati del presente lavoro potrebbero essere rilevanti anche ai fini della progettazione ed implementazione di futuri studi terapeutici finalizzati a modificare la progressione della distonia laringea.  

A cura di: M. Bologna (Roma)

Maggio 2018

Gait Initiation Is Influenced by Emotion Processing in Parkinson’s Disease Patients With Freezing

Autori: Lagravinese G., Avanzino L., Pelosin E., Bonassi G., Carbone F., Abbruzzese G.
Pubblicato su: Mov Disord. 2018 Apr;33(4):609-617. doi: 10.1002/mds.27312.    

Giovanna Lagravinese

Dipartimento di Neuroscienze (DINOGMI), Università di Genova

Articolo disponibile su:  Movement Disorders


 

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Crescenti evidenze suggeriscono un possibile coinvolgimento fisiopatologico di sistemi implicati prevalentemente in funzioni non propriamente motorie (tra cui ad esempio il sistema limbico) nel generare i sintomi motori della malattia di Parkinson sono influenzati, tra cui si annovera il cosiddetto fenomeno del congelamento dell'andatura o freezing. Nello studio condotto dalla Dott.ssa Lagravinese e dai suoi collaboratori sono state indagate le influenze esercitate da stimoli con variabile valenza emotiva nella fase di avvio della deambulazione in pazienti affetti da malattia di Parkinson, con o senza freezing. Sono stati inclusi nello studio 44 partecipanti in totale, suddivisi in 3 gruppi (30 pazienti con malattia di Parkinson, 15 con freezing e 15 senza freezing e 14 soggetti sani di controlli). I partecipanti allo studio stati invitati a svolgere un compito motorio con basso carico cognitivo, ovvero ad effettuare un passo avanti in risposta ad un'immagine piacevole e un passo indietro in risposta ad un’immagine spiacevole. Il carico cognitivo del compito motorio è stato quindi aumentato invitando i partecipanti ad effettuare un passo indietro in risposta a un'immagine piacevole e un passo avanti in risposta ad un’immagine spiacevole. La deambulazione è stata analizzata in maniera oggettiva mediante un apposito tappeto sensorizzato. Sono stati misurati il tempo di reazione, la lunghezza del passo, eventuali aggiustamenti posturali anticipatori e la traiettoria del movimento. Il tempo di reazione è risultato aumentato e la lunghezza del passo è risultata più breve nei pazienti con freezing rispetto agli altri gruppi di partecipanti allo studio durante il compito motorio con carico cognitivo elevato (ovvero quando veniva richiesto di effettuare un passo avanti in risposta a un'immagine sgradevole). È stato inoltre osservato che le modificazioni dei tempi di reazione correlavano positivamente con la frequenza degli episodi di freezing. Lo studio dimostra pertanto che l’avvio della deambulazione, oltre che dal carico cognitivo del compito, può essere influenzato anche dalla valenza emotiva degli stimoli visivi. I risultati supportano pertanto l’ipotesi di un ruolo fisiopatologico svolto dal sistema limbico nel generare il freezing della deambulazione in pazienti affetti da malattia di Parkinson. I risultati dello studio potrebbero avere risvolti terapeutici per l’eventuale impiego precoce della terapia cognitivo-comportamentale.  

A cura di: M. Bologna (Roma)

Aprile 2018

Diabetes mellitus and Parkinson disease

Autori: Pagano G., Polychronis S., Wilson H., Giordano B., Ferrara N., Niccolini F., Politis M.
Pubblicato su: Neurology. 2018 Apr 6. pii: 10.1212/WNL.0000000000005475. doi: 10.1212/WNL.0000000000005475 

Gennaro Pagano

Neurodegeneration Imaging Group, Institute of Psychiatry, Psychology and Neuroscience, King’s College - Londra

Articolo disponibile su:  Neurology


 

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Evidenze ottenute in animali da esperimento ed in studi preclinici suggeriscono, in maniera sempre più convincente, una possibile relazione tra alterato metabolismo del glucosio e diabete mellito, la malattia di Parkinson ed aspetti neurodegenerativi tipici di questa malattia. In questo studio condotto dal Dott. Pagano e dai suoi collaboratori è stata ulteriormente approfondita la possibile relazione tra diabete mellito e malattia di Parkinson mediante l’analisi di neuroimmagine (molecolare e strutturale) e dei bio-marcatori liquorali in pazienti in fase iniziale di malattia. Sono stati confrontati 25 pazienti affetti da malattia di Parkinson e diabete mellito, 25 pazienti affetti da malattia di Parkinson, 14 pazienti affetti da diabete mellito e 14 controlli sani. I pazienti con malattia di Parkinson sono stati inoltre valutati longitudinalmente (periodo di follow-up di 36 mesi) per valutare una possibile associazione tra diabete mellito, la progressione dei sintomi motori ed eventuale declino cognitivo. Nei pazienti affetti da malattia di Parkinson e diabete mellito sono stati riscontrati punteggi motori più elevati, ridotto legame con il trasportatore di dopamina a livello striatale e livelli più elevati di bio-marcatori liquorali suggestivi di danno neuronale, rispetto agli altri gruppi inclusi nello studio. Nella popolazione di pazienti con malattia di Parkinson, la presenza di diabete mellito è stata inoltre associata a una progressione più rapida dei sintomi motori e a un declino cognitivo più severo nel corso del periodo di osservazione. I risultati dello studio suggeriscono pertanto che il diabete mellito rappresenta una condizione che può amplificare i fenomeni neurodegenerativi che caratterizzano la malattia di Parkinson e determinare il manifestarsi di un fenotipo di malattia più aggressivo. Saranno necessari ulteriori studi per confermare, su una casistica più ampia, il legame tra insulino-resistenza, diabete mellito e malattia di Parkinson e per quantificare i potenziali risvolti terapeutici in questo ambito neurologico dei nuovi farmaci antidiabetici.  

A cura di: M. Bologna (Roma)

Marzo 2018

Eight-hours adaptive deep brain stimulation in patients with Parkinson disease

Autori: Arlotti M., Marceglia S., Foffani G., Volkmann J., Lozano A.M., Moro E., Cogiamanian F., Prenassi M., Bocci T., Cortese F., Rampini P., Barbieri S., Priori A.
Pubblicato su: Neurology. 2018 Mar 13;90(11):e971-e976. doi: 10.1212/WNL.0000000000005121

Mattia Arlotti

Fondazione IRCCS Ca'Granda Ospedale Maggiore Policlinico - Milano

Articolo disponibile su:  Neurology


 

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L’ottimizzazione della stimolazione cerebrale profonda (deep brain stimulation - DBS) mediante lo sviluppo della cosiddette strategie di stimolazione adattativa rappresenta un campo di attiva ricerca in pazienti affetti da malattia di Parkinson. La DBS adattativa si propone di ottimizzare il controllo dei parametri di stimolazione, in base allo stato clinico del paziente. La tecnica si avvale della registrazione dell’attività elettrica di popolazioni neuronali (potenziali di campo locale), attraverso gli elettrodi impiantati per la stimolazione. Diverse evidenze suggeriscono che la DBS adattativa è più efficace delle tecniche DBS convenzionali nel miglioramento dei punteggi motori e nel controllo delle discinesie indotte da Levodopa nei pazienti. Nonostante i risultati positivi, i dati ad oggi disponibili sono stati per lo più ottenuti in studi caratterizzati da sessioni sperimentali brevi. Nello studio “in aperto” condotto dal Dr. Arlotti e dai suoi collaboratori è stato indagata la fattibilità e l'efficacia clinica della DBS adattativa, in pazienti con malattia di Parkinson avanzata, per un periodo più prolungato, effettuando registrazioni dei potenziali di campo locale e di stimolazione del nucleo subtalamico di 8 ore. Gli autori hanno pertanto avuto modo di monitorare le modificazioni neurofisiologiche e cliniche dei pazienti in un setting sperimentale che simulava da vicino lo svolgimento delle comuni attività di vita quotidiana . Lo studio conferma che la misurazione della potenza delle oscillazioni nella banda beta (11-35 Hz) è un utile biomarcatore dello stato clinico del paziente. Gli autori hanno inoltre osservato che la DBS adattativa è in grado di ridurre i parametri di stimolazione nella fase ON (rispetto alla fase OFF) e che la regolazione automatizzata della DBS previene il manifestarsi delle discinesie. In conclusione, i risultati dello studio suggeriscono che la DBS adattativa è tecnicamente fattibile nella vita di tutti i giorni e rappresenta un metodo sicuro, ben tollerato ed efficace per la gestione terapeutica dei sintomi motori nei pazienti affetti ad malattia di Parkinson. Lo studio rappresenta pertanto un ulteriore passo in avanti verso l'ottimizzazione della DBS nella malattia di Parkinson (PD) in vista dello sviluppo di dispositivi da impiegare nella pratica clinica.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Febbraio 2018

Progression of tremor in early stages of Parkinson’s disease: a clinical and neuroimaging study

Autori: Pasquini J., Ceravolo R., Qamhawi Z., Lee G., Deuschl G., Brooks D.J., Bonuccelli U., Pavese N.
Pubblicato su: Brain. 2018 Jan 22. doi: 10.1093/brain/awx376

Jacopo Pasquini

Università di Pisa - Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Articolo disponibile su:  Brain

jacopo.pasquini@unimi.it

 

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Il tremore a riposo è uno dei principali segni della malattia di Parkinson e si osserva spesso in associazione a tremore cinetico e posturale. Ad oggi tuttavia, non è chiaro in che termini le tre tipologie di tremore coesistano nelle fasi iniziali di malattia; restano inoltre da chiarire la progressione di questi disturbi e le possibili relazioni con disfunzioni neurotrasmettitoriali dopaminergiche e serotoninergiche. In questo studio pubblicato su Brain, il Dott. Pasquini e i suoi collaboratori hanno esaminato dati relativi alle valutazioni cliniche di base e di follow-up (a 2 anni) di un campione di 378 pazienti affetti da malattia di Parkinson. Gli Autori hanno inoltre esaminato le immagini di tomografia ad emissione di singolo fotone (123I-FP-CIT), per la quantificazione del trasportatore di dopamina a livello del putamen e del trasportatore di serotonina a livello dei nuclei del rafe, in un sotto-gruppo di pazienti. Il tremore a riposo è stato osservato in circa il 70% dei pazienti ed è pertanto risultato il tipo di tremore più frequente nelle fasi precoci della malattia di Parkinson. Tremore posturale e cinetico erano presenti in una percentuale inferiore di casi. In circa il 20% dei pazienti con tremore non veniva osservato tremore a riposo. I risultati dello studio suggeriscono che con il progredire della malattia di Parkinson, sia la disfunzione serotoninergica che dopaminergica potrebbero contribuire al manifestarsi del tremore a riposo. La gravità del tremore a riposo (sia al basale che al follow-up) è risultata infatti inversamente correlata alla disponibilità del trasportatore della serotonina nei nuclei del rafe ed in particolare è risultata associata ad un ridotto rapporto di assorbimento rafe/putamen del tracciante (parametro indicativo di una maggiore disfunzione serotoninergica rispetto al grado di disfunzione dopaminergica). Un ulteriore risultato dello studio riguarda il miglioramento del tremore a riposo dopo terapia dopaminergica, risultato inferiore nei pazienti con maggior compromissione serotoninergica, ovvero ridotto rapporto di assorbimento rafe/putamen. Oltre alle possibili implicazioni sul piano fisiopatologico, i risultati di questo studio potrebbero avere ricadute sul piano clinico ed in particolare nella gestione terapeutica del tremore a riposo in pazienti con malattia di Parkinson.

A cura di: M. Bologna (Roma)

Gennaio 2018

Motor learning and metaplasticity in striatal neurons: relevance for Parkinson’s disease

Autori: Giordano N.., Iemolo A., Mancini M., Cacace F., De Risi M., Latagliata E.C., Ghiglieri V., Bellechi G.C., Puglisi-Allegra S., Calabresi P., Picconi B., De Leonibus E.
Pubblicato su: Brain. 2017 Dec 21. doi: 10.1093/brain/awx351

Nadia Giordano

Institute of Genetics and Biophysics (IGB), National Research Council, Napoli Telethon Institute of Genetics and Medicine, Telethon Foundation, Pozzuoli
Articolo disponibile su:  Brain

nadia.giordano@sns.it

 

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È noto che l’alterata trasmissione dopaminergica nella via nigro-striatale, che caratterizza la malattia di Parkinson, oltre a compromettere un ampio spettro di funzioni neuronali, potrebbe inoltre interferire con i meccanismi di plasticità sinaptica mediati dai recettori dopaminergici D1 e D2 e determinare pertanto un’alterazione dell’apprendimento motorio. Ad oggi, tuttavia i meccanismi di plasticità sinaptica coinvolti nelle diverse fasi dell’apprendimento, ovvero acquisizione iniziale e successiva ottimizzazione di un compito motorio, non sono del tutto noti. In questo studio, condotto su animali da esperimento dalla Dott.ssa Nadia Giordano e dai suoi collaboratori, sono state inizialmente indagati possibili differenze interindividuali nell’apprendimento di un compito motorio standardizzato, è stato quindi effettuato uno studio ex vivo della plasticità sinaptica a livello striatale. I risultati dello studio dimostrano che le modificazioni dei meccanismi di potenziamento a lungo termine della trasmissione sinaptica a livello dello striato dorsale, mediati dal trasportatore attivo della dopamina (DAT) e dei recettori D1, potrebbero essere implicate nella transizione dall’acquisizione iniziale alla successiva ottimizzazione di un compito motorio. Gli Autori dello studio hanno inoltre osservato che la sovra-espressione di a-synucleina umana a livello mesencefalico riduceva i livelli di DAT a livello striatale ed alterava i meccanismi di plasticità sinaptica e l’apprendimento motorio negli animali da esperimento. L’aspetto interessante è che le alterazioni nella espressione del DAT venivano osservata prima di una significativa perdita di neuroni dopaminergici e della comparsa di bradicinesia. I risultati di questo studio supportano pertanto l’ipotesi che un’alterata funzione dei terminali dopaminergici possa svolgere un importante ruolo fisiopatologico nelle fasi iniziali della malattia di Parkinson. Simili meccanismi potrebbero caratterizzare anche altre sinucleinopatie.

A cura di: M. Bologna (Roma)